venerdì 7 luglio 2017

Stop alle armi in Svezia. Cosa fa l'Italia?

Export armi alle dittature. Stop svedese e silenzio italiano

Il Paese scandinavo reintroduce la leva obbligatoria ma ferma l’invio di armamenti ai governi che violano i diritti umani. Cosa vuol fare l’Italia? Il 17 luglio discussione alla Camera sul caso della guerra in  Yemen
AP Photo/Hasan Jamali
La Svezia ha deciso, con accordo unitario tra governo e opposizioni, di   bloccare l’esportazione di armi verso gli stati autocratici e che non rispettano i diritti umani. Ne hanno dato notizia le agenzie di stampa e i media principali. Eppure il Paese scandinavo non vive in un mondo ideale di pace. Ha un vicino come la Russia che non fa dormire sonni tranquilli, tanto che il ministro della difesa svedese ha parlato, nell’agosto scorso, di provocazioni intollerabili da parte delle truppe di Putin che usano, nelle loro esercitazioni al confine, anche armi nucleari tattiche. Il governo svedese ha deciso di reintrodurre da marzo 2017 la coscrizione militare obbligatoria nel Paese richiamando in servizio tutti i ragazzi nati tra il 1999 ed il 2000.
Le aziende degli armamenti, a cominciare dalla multinazionale Saab, hanno criticato la scelta di porre limiti troppo esigenti nella vendita delle armi arrivando a minacciare di delocalizzare altrove la produzione anche se la Svezia è interessata ad aumentare il bilancio della difesa perché, come afferma la tesi prevalente , «la stessa produzione di tecnologia militare è un fattore fondamentale per la dissuasione e quindi la pace».
Si tratta, secondo questa prospettiva, di un settore «da tutelare con grande cura nell’ambito delle democrazie avanzate». Resta il fatto che la produzione di armi non può essere vincola al principio di sufficienza (“produco solo per la mia difesa”) ma ha bisogno di trovare comunque dei compratori.
Nell’audizione  di Mauro Moretti, avvenuta il 7 marzo presso la Commissione attività produttive della Camera,  l’ex amministratore delegato di Finmeccanica Leonardo ha segnalato la controtendenza dell’Italia nei confronti degli altri Paesi Nato, a cominciare dagli Usa, che stanno incrementando la spesa per la Difesa, auspicando perciò il raggiungimento del 2% del Pil annuale . Secondo l’osservatorio Milex questo incremento comporterebbe il passaggio da una spesa giornaliera del settore da 64 a 100 milioni di euro.
Lo stesso Moretti, sostituto nel frattempo nella carica ricoperta ora dall’ex manager bancario Alessandro Profumo, ha descritto ai parlamentari uno scenario di riferimento a livello mondiale che vedrà da qui al 2021 picchi di spesa in Arabia Saudita (+19%) e in Asia (+10% India e +8% Cina) con una Russia, invece, data  in flessione dopo un periodo  di crescita costante.
Cosa farà l’Italia? Il boom del fatturato di Finmeccanica Leonardo è direttamente collegato alla recente vendita di 28 caccia bombardieri Eurofighter al Kuwait, Paese che fa parte, tra l’altro, della coalizione a guida saudita coinvolta nella guerra in Yemen. Lo stesso conflitto dove sono stati impiegate bombe provenienti dall’azienda Rwm sita in Sardegna e controllata dalla multinazionale tedesca Rheinmetall Defence.
La seduta dell’assemblea della Camera dei deputati prevede per il prossimo 17 luglio la discussione di una mozione sulla guerra nel piccolo Paese del Golfo Persico dove è scoppiata anche una forte epidemia di colera. Cosa impedisce al governo e ai parlamentari italiani di compiere una scelta simile a quella dei loro colleghi svedesi? Come entra questa prospettiva strategica nel dibattito dei partiti alle prese con nuove alleanze elettorali?
Qui conferenza stampa Camera dei deputati 21 giugno su Guerra nello Yemen e bombe italiane: appello alla coscienza”  

Ipocrisia dopo le bombe


AP Photo/Michel Euler


Il caos attuale e la guerra in Libia del 2011


Il conflitto voluto fortemente dalla Francia di Sarkozy è all’origine della forte instabilità odierna. La responsabilità dei governi italiani e le sfide attuali secondo il direttore del Programma sicurezza e difesa dell’Istituto affari internazionali. Intervista al professor Jean Pierre Darnis  

Nell’editoriale su cittanuova.it del 5 luglio 2017 Michele Zanzucchi mette in fila, senza fare sconti e sollecitando un risveglio delle coscienze, tutte le ipocrisie che accompagnano la questione epocale dei migranti. Tra le finzioni più eclatanti c’è quella di «pensare che la Libia possa avere un governo unico ed efficace nel controllo degli accessi al suo deserto, quando noi europei (Sarkozy e Cameron in testa) abbiamo creato l’attuale anarchia con gli scellerati bombardamenti del 2011 e continuando a sostenere i vari contendenti a seconda delle convenienze dei singoli Paesi dell’Unione». Senza scordare che la Corte penale internazionale dell’Aja sta indagando sulla guardia costiera libica, destinataria di mezzi navali italiani, per «crimini contro l’umanità».
Città Nuova è stata tra i pochi mezzi di informazione che ha criticato fortemente l’intervento militare in Libia del 2011. Un evento spartiacque che mettiamo a tema del nostro dialogo con Jean Pierre Darnis, direttore del Programma sicurezza e difesa dello IAI (Istituto affari internazionali). Prima di diventare professore associato all’Università di Nizza Sophia-Antipolis ha insegnato all’École Militaire Supérieure, all’Università di Saint Etienne, alla Luiss di Confindustria e all’Istituto di studi politici di Parigi.
Considerando il caos persistente in Libia e la tragedia dei migranti che passano per quella rotta, non le sembra che il conflitto voluto dal presidente francese Sarkozy nel 2011 sia stato del tutto ingiustificato e controproducente?
La primavera araba è scoppiata in Tunisia nel 2011. Si è poi diffusa in vari Paesi, inclusa la Libia. L’intervento francese, pur criticabile, avviene quindi dopo lo scoppio di una forma di guerra civile che stava creando instabilità. Dal 2011 in poi gli italiani, che hanno partecipato a quest’intervento con una notevole azione di bombardamento, non hanno mai smesso di criticare a posteriori quest’intervento. La responsabilità eventuale del governo Berlusconi (con ministri La Russa e Frattini) va quindi esaminata se uno vuole fare della politica fiction. Si tratta di uno sforzo però,  secondo me, inutile. Nel 2013, per arginare i pericoli nel Sahara e particolarmente nel Mali anche a seguito dell’implosione della Libia, la Francia (presidenza Hollande) ha creato un dispositivo di contro terrorismo (operazione Barkhane). Ha chiesto ripetutamente aiuto ai partner europei. 
Cosa ha risposto l’Italia ?
Il governo italiano (governo Monti) ha rifiutato l’invio di aiuti, anche logistici. Questo rifiuto si è poi verificato di nuovo con il governo Renzi nel 2016, quando al seguito degli attentati del Bataclan la Francia ha chiesto aiuto ai suoi partner europei per poter impegnare le sue truppe all’interno e fronteggiare la minaccia terroristica. È del tutto ingiustificato e controproducente che, dopo un giudizio negativo sulla presidenza Sarkozy, questo giudizio italiano si sia poi applicato alla presidenza Hollande con il rifiuto di contribuire, anche in funzioni di sostegno, allo sforzo di stabilizzazione nella zona del Sahel/Sahara. Ha creato e crea oggi una differenziazione problematica, quella tra una Francia alle prese con la lotta al terrorismo nell’Africa sub-sahariana e un’Italia impegnata a gestire i contraccolpi dello sfascio della Libia.
Che tipo di intervento considera necessario in quell’area?
Soltanto una visione d’insieme di sicurezza regionale, con una forte presenza europea, può portare ad una soluzione convergente. Quest’elemento è stato senz’altro colto dai tedeschi, che hanno aumentato la loro presenza militare in Mali e danno un aiuto solido ai francesi. Se l’Italia vuole avere maggiore voce in capitolo, per poter giustamente chiedere reazioni collettive per trattare queste emergenze, deve operare una saldatura operativa con Francia e Germania sull’Africa nel suo insieme. E magari guardare al futuro senza perdersi nelle colpe a posteriori dei governi Berlusconi e Sarkozy, associati nell’intervento del 2011. Ad esempio l’iniziativa del G5 Sahel andrebbe sostenuta con vigore, anche da parte dell’Italia.