sabato 3 dicembre 2016

Menzogna della guerra

Iraq, Siria, passando per la Libia inutilità e ipocrisia delle guerre


“L’intollerabile carneficina”. “Il macello siriano”. “Tutti contro tutti ad Aleppo”. I giornalisti del mondo intero hanno di che sbizzarrirsi nel cercare il titolo più ad effetto per raccontare quello che sta avvenendo ad Aleppo, una città fantasma, che però trattiene nel suo ventre più di 200 mila persone, i più poveri dei poveri, quelli che non hanno potuto andarsene, e qualcuno che non ha voluto partire perché votato al martirio, con il sogno di non far morire la città.

Kerry, segretario di Stato Usa, ingiunge alla Russia di cessare la carneficina. I russi rispondono che sono gli Usa che debbono fare un adeguato esame di coscienza. Assad bombarda a tappeto con la sua aviazione, forse con armi chimiche, usate anche da alcune delle tante fazioni ribelli che sguazzano nel torbido, arraffando l’arraffabile, ormai ben installate nel business della guerra, sequestrando qualsiasi personaggio che non abbia la pelle caffelatte, anche preti. Daesh gongola. E, soprattutto, i mercanti d’armi gongolano, mentre i mercenari arrivano come mosche attirate dalla carogna. Scriveva Elias Canetti: «Non posso più guardare una carta geografica. I nomi delle città puzzano di carne bruciata».



Papa Francesco, fedele al suo principio di sgomentarsi ma non schierarsi, tuona contro la guerra in Siria: «Mi appello alla coscienza dei responsabili dei bombardamenti, che dovranno dare conto davanti a Dio». Se tutti si richiamano a Dio nello scatenare la guerra, non ci sarebbe castigo più grande per loro. Ma di Dio questa gente nei fatti se ne fa un baffo.

Aleppo è la Sarajevo dell’inizio del XXI secolo, come la città bosniaca alla fine del XX secolo era stata l’icona della cattiva coscienza del mondo intero. Aleppo e Sarajevo, incrocio della malvagità dell’uomo e dell’ignavia delle cancellerie mondiali, buco nero del tutti contro tutti – mi piace citare il sociologo Gilles Lipovetsky che sostiene come «il narcisismo (e direi il narcisismo degli Stati, ndr) porta alla guerra del tutti contro tutti» –, dell’incapacità umana di capire che una ferita va curata per guarire, e non va continuamente infettata. Fino alla cancrena. Saltano uno alla volta i confini tracciati col righello dai colonialisti all'inizio del XX secolo, così come sta avvenendo anche in Africa peraltro. E i grandi di questo mondo diventano piccoli piccoli, incapaci di tenere in mano la matita con la quale vorrebbero tracciare i nuovi confini parcellizzati: sciiti di qua, sunniti di là, curdi di qua, cristiani di là… Forse solo il Dio morto in croce può capire Sarajevo e Aleppo, «l’orrore sempre in agguato», come diceva André Gluksmann.

Aleppo è un punto di arrivo (provvisorio, purtroppo) di una serie di guerre e atti terroristici avviati storicamente dalla prima guerra in Iraq, quella di Bush padre, dopo l’invasione del Kuwait, era il 1991. L’allora presidente ebbe almeno il buon senso di ascoltare i suoi generali e di non occupare Baghdad. Fece marcia indietro, dopo aver incusso timore al dittatore iracheno. Venne poi la teoria degli “Stati canaglia” teorizzata dall’American Enterprise Institute guidato all’epoca da Paul Wolfowitz, prodromo all’11 settembre, all’invasione dell’Afghanistan, alla seconda guerra d’Iraq, allo stillicidio del terrorismo in Europa. 

Senza dimenticare le operazioni chirurgiche dei francesi in Africa sahariana e subsahariana (mai interrottesi in realtà), l’inizio della drammatica vicenda sudanese e la continuazione di quella ancora più grave sudanese, o ancora le crisi di Gaza e l’impossibilità di risolvere il problema israelo-palestinese, che qualcuno ha definito “madre di tutte le guerre”.



Arrivò quindi la brutta storia libica, nel novembre 2011, con l’inopinato e scellerato attacco dei “piccoli” Sarkozy e Cameron che, surfando sulle dichiarazioni Onu e prendendo in controtempo finanche Obama, hanno nei fatti ucciso un dittatore ma provocando nel contempo quello stato di infinita guerra civile che ben conosciamo.

Si è poi aperto il dolorosissimo capitolo Siria-Iraq-Daesh: per gli errori a ripetizione operati dagli statunitensi e dai loro alleati – incapaci di mettersi attorno a un tavolo perché Assad era legato ai russi e agli iraniani, e dopo aver finanziato chiunque fosse contro Assad, persino delle fazioni qaediste –, Daesh ha trovato uno spazio di nessuno in cui prosperare e muoversi, coagulando l’infelicità sunnita e ricevendo copiosi finanziamenti dalle monarchie del Golfo persico e anche da altri. Mentre gli occidentali, assieme a tutti gli altri, hanno cominciato a fare affari con il preteso califfato. Scriveva Montanelli: «La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai militari». Bisognerebbe aggiungere: «Per lasciarla fare ai politici».

Poi Parigi, Bruxelles, Nizza, Monaco… La guerra a casa nostra, come l’11 settembre aveva portato alla guerra negli Stati Uniti. Aveva proprio ragione Bergoglio quando nel settembre 2014, a Redipuglia, parlò di «una Terza guerra mondiale a pezzi». È la realtà, indiscutibile. Se prendiamo l’arco di Paesi che va dal Sahara Occidentale, dove vige la più lunga e dimenticata guerra del pianeta, quella del Polisario, fino all’Afghanistan, possiamo contare una ventina di stati di emergenza e una dozzina di vere e proprie guerre. Farne l’elenco sarebbe oggi troppo lungo. Guarda caso, quest’arco è quello da cui proviene il maggior numero di migranti che bussano alle porti dell’Europa.

È evidente l’inutilità di tutte queste guerre: non un solo conflitto ha permesso di arrivare a una tregua, non dico a una pace, tantomeno a un processo di perdono e riconciliazione, come direbbe evangelicamente Massimo Toschi. Non una guerra ha permesso di sanare le ferite tra etnie, gruppi sociali, gruppi di interesse locale. Non una guerra ha permesso di avanzare nella convivenza civile: diceva il regista Andrei Tarkovski che «dopo la guerra, immancabilmente la cultura s’effondre, crolla». 

 

E l’unico risultato effettivo è stato quello di scavare sempre più il fossato tra certo mondo occidentale e certo mondo musulmano (mai dimenticare quest’espressione “certo mondo”: non c’è un conflitto di civiltà, né di religione, perché c’è solo una religione della guerra, non un conflitto di religioni o di civiltà). Inutilità, certo non per i commercianti di armi e per chi fa affari approfittando del caos e della distruzione degli apparati statali di amministrazione e di polizia. Scriveva Sergio Quinzio, stigmatizzando coloro che cercavano di giustificare con ogni sorta di sofismi la guerra: «La guerra giusta non è mai giusta».

Ed è altrettanto evidente l’ipocrisia di tali guerre: la fialetta sventolata all’Onu da Colin Powell (che poi si pentì amaramente di averlo fatto) sotto il naso dei rappresentanti degli Stati per giustificare l’intervento Usa in Iraq del 2003 è e resterà l’icona dell’ipocrisia delle guerre che coinvolgono il mondo musulmano. È vero, per Simone Weil la guerra è «il prestigio per eccellenza». La guerra è in sé dia-ballein, separazione, influenza diabolica, mentre la pace è sin-bolon, cioè simbolo, unità nella distinzione. E nel giornalismo si sa bene che la guerra ingenera solo menzogna. Ma stupisce come democrazie che esigono il rispetto dei diritti umani al di fuori dei loro confini possano continuare impunemente a esigere certi standard di verità dagli avversari mentre loro stessi non si sottopongono a tali limiti.

Bisognerebbe poi approfondire l’immenso capitolo delle ipocrisie arabe, che non vengono tanto dalla presunta naturale tendenza di tali popolazioni al “doppio racconto”, all’astuzia istituzionalizzata, ma viene innanzitutto dal petrolio, dalla ricchezza posseduta o invidiata, all’ipocrisia di una religione sventolata come una bandiera e imposta ai sudditi senza esigerla dai membri delle famiglie reali o dei potentati economici. L’esempio della guerra dello Yemen è dolorosamente presente al nostro spirito, una guerra rimossa dai media internazionale ma ormai causa di milioni di migranti e di decine di migliaia di morti.

Per concludere, si invoca reciprocità nei rapporti coi Paesi a maggioranza musulmana, e ci sono delle buone ragioni per farlo. Ma bisognerebbe esigere anche da noi occidentali una dirittura democratica intransigente direi, sull’esempio di un La Pira, di un Giordani, di un Dossetti, di un… Bergoglio. Solo negando questo doppio standard si può sperare di por fine alle guerre del XXI secolo.

Mi piace concludere citando Martin Buber, che profetizzò, quasi annusandola nell’aria, la Prima guerra mondiale, parole attualissime: «Che tipo di guerra era una guerra che inglobava il mondo intero?». 

Da quel momento in Buber «crebbe il presagio che era finita l’epoca delle “guerre” e che qualcosa d’altro, solo apparentemente confrontabile, ma in realtà sempre più differente e mostruoso, si accingeva a inghiottire la storia e con essa gli uomini». Un mostro che inghiotte la storia e gli uomini: questa è la guerra.



*Relazione di Michele Zanzucchi al seminario

Percorso della pace, menzogna della guerra
promosso il 5 ottobre 2016 dal gruppo economia disarmata del Movimento dei Focolari Italia con il Centro La Pira di Firenze

 

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