Iraq, Siria, passando per la Libia inutilità e ipocrisia delle guerre

Kerry, segretario di Stato Usa, ingiunge
alla Russia di cessare
la carneficina. I russi rispondono che sono gli Usa che debbono fare un
adeguato esame di coscienza. Assad
bombarda a tappeto con la sua aviazione, forse con armi chimiche, usate anche
da alcune delle tante fazioni ribelli
che sguazzano nel torbido, arraffando l’arraffabile, ormai ben installate nel
business della guerra, sequestrando qualsiasi personaggio che non abbia la
pelle caffelatte, anche preti. Daesh
gongola. E, soprattutto, i mercanti d’armi gongolano, mentre i mercenari
arrivano come mosche attirate dalla carogna. Scriveva Elias Canetti: «Non posso
più guardare una carta geografica. I nomi delle città puzzano di carne bruciata».
Papa Francesco,
fedele al suo principio di sgomentarsi ma non schierarsi, tuona contro la
guerra in Siria: «Mi
appello alla coscienza dei responsabili dei bombardamenti, che dovranno dare
conto davanti a Dio». Se tutti si richiamano a Dio nello scatenare la guerra,
non ci sarebbe castigo più grande per loro. Ma di Dio questa gente nei fatti se
ne fa un baffo.
Aleppo è la Sarajevo dell’inizio del XXI secolo,
come la città bosniaca alla fine del XX secolo era stata l’icona della cattiva
coscienza del mondo intero. Aleppo e Sarajevo, incrocio della malvagità
dell’uomo e dell’ignavia delle cancellerie mondiali, buco nero del tutti contro
tutti – mi piace citare il sociologo Gilles Lipovetsky che sostiene come «il
narcisismo (e direi il narcisismo degli Stati, ndr) porta alla guerra del tutti
contro tutti» –, dell’incapacità umana di capire che una ferita va curata per
guarire, e non va continuamente infettata. Fino alla cancrena. Saltano uno alla
volta i confini tracciati col righello dai colonialisti all'inizio del XX
secolo, così come sta avvenendo anche in Africa peraltro. E i grandi di questo
mondo diventano piccoli piccoli, incapaci di tenere in mano la matita con la
quale vorrebbero tracciare i nuovi confini parcellizzati: sciiti di qua,
sunniti di là, curdi di qua, cristiani di là… Forse solo il Dio morto in croce
può capire Sarajevo e Aleppo, «l’orrore sempre in agguato», come diceva André Gluksmann.

Senza dimenticare le operazioni chirurgiche dei francesi in
Africa sahariana e subsahariana (mai interrottesi in realtà), l’inizio della
drammatica vicenda sudanese e la continuazione di quella ancora più grave
sudanese, o ancora le crisi di Gaza e l’impossibilità di risolvere il problema
israelo-palestinese, che qualcuno ha definito “madre di tutte le guerre”.
Arrivò quindi la brutta storia libica, nel novembre 2011, con
l’inopinato e scellerato attacco dei “piccoli” Sarkozy e Cameron che, surfando
sulle dichiarazioni Onu e prendendo in controtempo finanche Obama, hanno nei
fatti ucciso un dittatore ma provocando nel contempo quello stato di infinita
guerra civile che ben conosciamo.

È evidente l’inutilità di tutte queste guerre: non un solo
conflitto ha permesso di arrivare a una tregua, non dico a una pace, tantomeno
a un processo di perdono e riconciliazione, come direbbe evangelicamente
Massimo Toschi. Non una guerra ha permesso di sanare le ferite tra etnie,
gruppi sociali, gruppi di interesse locale. Non una guerra ha permesso di
avanzare nella convivenza civile: diceva il regista Andrei Tarkovski che «dopo
la guerra, immancabilmente la cultura s’effondre,
crolla».
E l’unico risultato effettivo è stato quello di scavare sempre più il fossato tra certo mondo occidentale e certo mondo musulmano (mai dimenticare quest’espressione “certo mondo”: non c’è un conflitto di civiltà, né di religione, perché c’è solo una religione della guerra, non un conflitto di religioni o di civiltà). Inutilità, certo non per i commercianti di armi e per chi fa affari approfittando del caos e della distruzione degli apparati statali di amministrazione e di polizia. Scriveva Sergio Quinzio, stigmatizzando coloro che cercavano di giustificare con ogni sorta di sofismi la guerra: «La guerra giusta non è mai giusta».

E l’unico risultato effettivo è stato quello di scavare sempre più il fossato tra certo mondo occidentale e certo mondo musulmano (mai dimenticare quest’espressione “certo mondo”: non c’è un conflitto di civiltà, né di religione, perché c’è solo una religione della guerra, non un conflitto di religioni o di civiltà). Inutilità, certo non per i commercianti di armi e per chi fa affari approfittando del caos e della distruzione degli apparati statali di amministrazione e di polizia. Scriveva Sergio Quinzio, stigmatizzando coloro che cercavano di giustificare con ogni sorta di sofismi la guerra: «La guerra giusta non è mai giusta».
Ed è altrettanto evidente l’ipocrisia di tali guerre: la
fialetta sventolata all’Onu da Colin Powell (che poi si pentì amaramente di
averlo fatto) sotto il naso dei rappresentanti degli Stati per giustificare
l’intervento Usa in Iraq del 2003 è e resterà l’icona dell’ipocrisia delle
guerre che coinvolgono il mondo musulmano. È vero, per Simone Weil la guerra è
«il prestigio per eccellenza». La guerra è in sé dia-ballein, separazione, influenza diabolica, mentre la pace è sin-bolon, cioè simbolo, unità nella
distinzione. E nel giornalismo si sa bene che la guerra ingenera solo menzogna.
Ma stupisce come democrazie che esigono il rispetto dei diritti umani al di
fuori dei loro confini possano continuare impunemente a esigere certi standard
di verità dagli avversari mentre loro stessi non si sottopongono a tali limiti.

Per concludere, si invoca reciprocità nei rapporti coi Paesi a
maggioranza musulmana, e ci sono delle buone ragioni per farlo. Ma bisognerebbe
esigere anche da noi occidentali una dirittura democratica intransigente direi,
sull’esempio di un La Pira, di un Giordani, di un Dossetti, di un… Bergoglio.
Solo negando questo doppio standard si può sperare di por fine alle guerre del
XXI secolo.
Mi piace concludere citando Martin Buber, che profetizzò,
quasi annusandola nell’aria, la Prima guerra mondiale, parole attualissime:
«Che tipo di guerra era una guerra che inglobava il mondo intero?».
Da quel
momento in Buber «crebbe il presagio che era finita l’epoca delle “guerre” e
che qualcosa d’altro, solo apparentemente confrontabile, ma in realtà sempre
più differente e mostruoso, si accingeva a inghiottire la storia e con essa gli
uomini». Un mostro che inghiotte la storia e gli uomini: questa è la guerra.

*Relazione di Michele Zanzucchi al seminario
Percorso
della pace, menzogna della guerra
promosso il 5 ottobre 2016 dal gruppo economia disarmata del Movimento dei Focolari Italia con il Centro La Pira di Firenze
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